martedì 21 maggio 2013

8. Amici nel tempo



Nell’autunno 2009 mi trovavo tra le montagne a nord di New York, le Catskills, a fare il giardiniere con la mia ragazza nell’ashram del nostro Maestro. Era un vero paradiso, nonostante la pesantezza del lavoro che offrivamo come dono alla comunità (e a noi stessi). Raccogliere tonnellate di foglie, spalare camion e camion di terra, piantare bulbi, spazzare, rastrellare, plastificare le finestre, cingere alberi e cespugli, onorare Dio in noi e negli altri.
Dormivamo in stanzoni con sei letti, ma essendo l’ashram aperto solo ai sevaiti — cioè coloro che offrono il proprio servizio — raramente vi erano più di due persone per stanza. A me andò di lusso. Avevo la stanza tutta per me e non dovevo rendere conto a nessuno. Scrivevo il mio diario nell’anticamera fino a tardi e mi alzavo tutte le mattine alle 4.30 — l’ora in cui a casa mia di solito vado a dormire. Verso le 21.00 crollavo, come Dante alla fine di ogni cantica.
Ma quando vidi alla reception che alla mia stanza era stato assegnato un nome, Philip Chaffee, dentro di me iniziai a borbottare. Forse era finita la pacchia. Quel giorno era un sabato, e con la mia ragazza andammo fuori dall’ashram; a pochi passi c’era l’Arati Store, il negozio in cui si poteva trovare di tutto — cibi, creme, statue, incensi, riviste, libri, ecc. — e mi beai di tanta abbondanza. E comprai una trentina di libri. Al punto che al check in del volo di ritorno ho dovuto pagare 50 $ extra per il peso della valigia (l’impiegata italoamericana mi disse nella sua lingua meravigliosa «ohe, guaglio’, qui superi il peso di venti kilograms, devi pagare 50 $ extra» e io «posso pagare con la carta?» e lei «co’ la card, in cuntant, comu ti pare»).
Mentre il cassiere dell’Arati Store batteva i trenta libri, improvvisamente mi accorsi che dietro di me c’era un uomo sulla cinquantina che attendeva. Aveva gli occhiali scuri, era alto e robusto, i capelli corti, ricci e grigi, un’aria seria ma allo stesso tempo gioviale. Insomma, sembrava il classico killer dei film americani. Mi scusai con lui per farlo aspettare tanto. E in un americano da western mi rispose “È ok, è una così bella giornata”.
Prendemmo le nostre buste e ce ne tornammo all’ashram.
Mentre camminavo verso gli appartamenti, lungo i corridoi tra gli alberi, continuai a percepire la presenza di quell’uomo alle mie spalle. Proprio come nei film, ripeto. Poi giunsi alla mia stanza, e, voltandomi, eccolo dietro di me, sempre con gli occhiali, sempre in silenzio. «Ah…» dissi, a dir poco sorpreso. Era lui Philip Chaffee.
Nell’ultima mia settimana all’ashram — e già nello scrivere questa frase, non so perché, mi vengono le lacrime agli occhi — Philip avrebbe condiviso la mia stanza e anche il lavoro ai giardini. Iniziammo a chiacchierare. Lui era un “attorney”, cioè un avvocato. Ed era, come molti americani, un patito dello yoga, in tutte le sue forme. Uno che, diversamente dagli europei, prende queste cose con molta serietà, pur con tutte le contraddizioni che vi possono essere nel fare un certo tipo di vita, o nell’averla fatta, e nello scegliere di punto in bianco la strada della perfezione, e perseguirla con ostinato entusiasmo. Gli chiesi da dove venisse. Grand Rapids, Michigan. Io capii “Grand Rabbits” e gli chiesi «dove sono questi conigli giganti?». Inoltre gli chiesi se, essendo del Michigan, potevo chiamarlo «Mitch». Lui rispose, sorridendo, «I don’t care!». Diventammo amici per la pelle.
Diversamente da noi, che ci spaccavamo la schiena come soldati per compiere fino in fondo l’immensa quantità di lavoro che il nostro coordinatore ci ammollava ogni giorno, Philip la prendeva con filosofia. A volte spariva per mezz’ora, ed era andato a prendere un rastrello. Intanto s’era fatto una passeggiata tra gli alberi rossi che cingevano il lago, contemplandone la bellezza. Un giorno un trasportatore, facendo retromarcia con il camion, spezzò un ramo di un grande albero, proprio vicino all’appartamento del Guru. La nostra coordinatrice, mentre ciò avveniva, gli gridò: «What are you doing? Shit!». Ci guardammo tutti negli occhi. Aveva proprio detto «Merda!». Sui terreni dell’ashram. Da quel momento, sdoganammo anche le parolacce. E Philip, rispetto agli altri nostri “colleghi” — un ragazzetto brasiliano, una signora argentina che non capiva una parola e un compassato signore inglese — era proprio il compagno ideale.
Passavamo ogni notte, al buio, a raccontarci le nostre vite, cosa desideravamo, cosa pensavamo di mille argomenti, quali erano i nostri progetti e desideri, e come la spiritualità ci aveva reso persone migliori. Usò una parola riguardo i nostri dialoghi, quando mi scrisse il suo pensiero sul mio diario. Disse che ero «challenging», cioè pungente, impegnativo, che con il mio punto di vista e il mio mondo lo sfidavo continuamente. Lui fu molto amabile quando venne con noi, all’Arati Store, a comprare — con i soldi vinti da mia madre al lotto — una statua di bronzo dello Shiva danzante, che avevo tanto desiderato e che poi mi fu spedita dall’India.
Philip era sempre disponibile, sempre allegro, sempre gioviale, sempre lì a darti una mano, a chiederti come stavi, a prendersi il suo tempo e il tuo tempo, perché parlare era un arricchirsi continuo e confrontarsi un viaggio della conoscenza.
Ricordo la sua faccia rossa, quando d’improvviso gli passò davanti il nostro Guru, uscendo dal caffè dell’ashram (il nostro Guru si fa vedere molto di rado). E ricordo com’era emozionato, come un bambino, quella notte del 31 ottobre, Halloween, quando fummo chiamati nel palazzo principale dell’ashram e il Guru arrivò a farci una sorpresa, trascorrendo con noi quella serata. Di notte, raccontandoci l’immensa emozione che avevamo appena vissuto, e ancora increduli, ci accorgemmo che chiudendo gli occhi non vedevamo il solito nero. Ma un blu brillante, luminoso e fantastico, il blu della Coscienza. Vivemmo quel momento fondamentale della nostra vita. Io e lui.
Quando fu il momento di andarcene, Philip era tristissimo. Camminava a testa bassa, e rimase con noi fino all’ultimo. Mi chiamava «fratello» e volle portare tutte le mie valigie, fino alla macchina. Quando, piangendo come vitelli, io e la mia ragazza vedemmo allontanarsi dal finestrino il più bel momento della nostra vita, c’era anche lui a salutarci.
Continuammo a scriverci. Tramite Facebook, era come fossimo costantemente collegati. Perché non mi era mai capitato di trovarmi così bene con una persona, come se la conoscessi da secoli. E di parlare a un livello così sottile, profondo, necessario.
Nel 2011 andammo in vacanza a Chicago. E per una serie di strane coincidenze, Philip non poté assentarsi dal lavoro — aveva delle udienze — e venirci a trovare. Nella sua delusione per non esserci riuscito, risuonava una strana, eccessiva tristezza. Gli dissi che avremmo avuto molti anni per incontrarci. Sarebbe venuto lui da noi a Roma, un giorno, a visitare l’Italia, e noi saremmo andati nella città dei conigli giganti.
Il 16 maggio del 2012, nel giorno in cui era nato il Maestro del nostro Maestro, un giorno sacro e benedetto, lessi su Facebook una serie di saluti e di commiati rivolti a lui. Non potei e non volli credere che fosse vero, ma era così. Una sera Philip era stato ricoverato per un’embolia polmonare e poco dopo se n’era andato. Cancellando quel futuro che avevamo immaginato e che forse lui sapeva di non poter garantire. Philip era una delle poche cose certe del mio futuro. Era quel pensiero dolce e luminoso cui correvo nei momenti di disagio, quando vedevo intorno a me un mondo inconsapevole, sciocco e violento. «Era l’uomo più morbido che avessi mai abbracciato» disse la mia ragazza, in lacrime. Philip era tante cose. E niente e nessuno colmerà il vuoto che ha lasciato nella mia vita. Ma io so, nel profondo del cuore, che dove è lui ora sta sentendo queste mie parole e rivivendo tutto questo con me. Perché come ci siamo incontrati, dopo secoli, prima o poi ci rincontreremo. Nel grande gioco della Coscienza. Io e Philip, come fratelli. Compagni di tante avventure. Amici nel tempo.


21.05.13 Copyright Gabriele Policardo



1 commento:

  1. Mi mancherà... sempre... così come sarà sempre nel mio Cuore e nei miei ricordi più dolci.

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